La Repubblica: MARTEDÌ, 31 LUGLIO 2007
Pagina 38 - Varie
I MALI INGUARIBILI DEL PROFESSIONISMO SPORTIVO
LA SCONFITTA DELL´UOMO BIONICO
preparatore Un medico raccontò che la sua squadra non era più in grado di vincere una corsa, gli avversari prendevano sostanze proibite
GIANNI CLERICI
Tanto meno difeso del calcio da una mafia trasversale, che va dalla politica all´economia, dalla religione pagana alle falangi ultras, il povero ciclismo sembra tirare le cuoia dopo le ultime disavventure, le ultime indagini, quelle sì , rigorose. Del ciclismo io sono un non addetto, per aver partecipato a due soli Giri, e a qualche tappa del Tour. Ma son stato, sono, grande amico e lettore di Gioan Brera e di Mario Fossati, i meglio del nostro giornalismo specializzato. Già ai loro tempi, e cito Brera, qualche dubbio sul menu di Coppi ce l´avevano, mentre per Bartali Gioan sosteneva che l´autentico doping fosse la fede.
Quanto a me, occasionale scriba di atletica leggera, l´immagine più viva di illiceità venne a visitarmi non durante una Milano-Sanremo, ma su una pista di atletica di Seul, in Corea. Sotto i mie occhi increduli, Ben Johnson correva imprendibile davanti a un gruppo che pareva trascinare nella sua scia. Le gambe mulinavano gonfie di muscoli, il petto era una prua fendiflutti, le palme tese tagliavano l´aria quasi timoni direzionali. Passò il traguardo, e, mentre gli altri stavano piegati sfiatati vinti, e dal sotto in su lo guardavano invidiosi e ammirati, alzò le braccia in un gesto di ovvietà, ancor prima che di trionfo. Mi attaccai al telefono, e al mio caporedattore annunciai: «Ben Johnson ha vinto ridendo» e, subito dopo: «È dopato sino alle orecchie. È quello che voglio scrivere» Seguì una discussione che si corruppe in lite. Fu, quello, il mio primo ed ultimo articolo a venire cestinato da un bravissimo giornalista, ancor oggi un caro amico. Non potevo permettermi un´affermazione tanto impegnativa senza uno straccio di prova, non potevo, solo al mondo, nel mezzo di una pioggia di superlativi e del trionfo della retorica ufficiale, io italianuzzo, su un giornale che nemmeno faceva un milione di copie, affermare che il divo Ben Johnson avesse vinto perché dopato. Che la sua macchina sopravanzasse le altre per un carburante diverso, oltreché proibito. Di ritorno da Seul ci ritrovammo, a cena, con Giorgio Bocca, uno che lo sport l´ha fatto, in montagna, non solo col mitra ma con gli sci. «Ho visto, al rallentatore, il filmato della Griffith. Non è possibile, non è umano portare in giro gambe simili. Sembrava che, ad ogni passo, ad ogni rimbalzo, le esplodessero dentro delle piccole cariche muscolari. Un fenomeno simile non può accadere in natura». Ben Johnson sarebbe stato squalificato in seguito alle prove antidoping. La Griffith anche lei, squalificata dalla vita, morta. Lo scoramento per quanto avevo visto mi avrebbe tenuto sempre più lontano dall´atletica, e dallo sport, nel quale avevo vissuto, prima da attore e in seguito da spettatore professionale sì, ma sempre appassionato.
Poi ci fu il medico, comacino come me, Massimo Testa. Era, Massimo, il medico della squadra ciclistica Motorola, e aveva messo in piedi un laboratorio d´avanguardia per i controlli fisiologici di chi, professionista o dilettante, praticasse lo sport. Ci si vedeva spesso, per umana simpatia oltre che per le mie esigenze di malato cronico, più o meno immaginario. Sinché, un giorno, inaspettatamente, lo sentii affermare che doveva andarsene. «Negli Stati Uniti, il paese di mia moglie», disse «Qui non ce la faccio più. Sono arrivato a un bivio, e devo scegliere». Spiegò che i suoi, della sua squadra, non erano più in grado di vincere una corsa. Lui li preparava, continuò, faceva tutto quanto era umanamente possibile per renderli competitivi. Competitivi sì - aggiunse - ma non in grado di battersi contro altri ciclisti che usavano sostanze proibite. Ma non solo proibite dagli elenchi che il comitato olimpico approntava ogni anno. Altre sostanze, o reperite in natura o create in laboratorio, che non facevano parte degli elenchi ufficiali. «Nel scegliere questa professione - affermò Massimo - ho prestato giuramento a Ippocrate. Non posso disattenderlo, ma non posso nemmeno dirmi, all´inizio di una gara, che per i miei è impossibile vincere. Meglio smettere». E Massimo fuggì a insegnare medicina sportiva in una Università americana .
Riflettevo sui rapporti, ormai tragici, tra il doping e lo sport, mentre, una bella domenica di primavera, percorrevo ad andatura molto turistica una stradetta del Canton Ticino. Zeppa di ciclisti, moltissimi lombardi, che prediligono la Confederazione per un maggior rispetto dei guidatori, costretti sia dall´educazione, sia dall´applicazione severa delle leggi. A un certo punto, ritrovai addirittura alcuni amici comacini, mi misi a seguirli sinché non ci fermammo al bar, a salutarci festosi e a bere qualcosa. Nel vederli tanto bene attrezzati, bici Colnago - la Ferrari delle due ruote - e divise spaziali - mi venne naturale chiedere se non provassero a partecipare a qualche gara gentlemen, di quelle over, per categorie di età. È impossibile, risposero. C´è gente capace di doparsi, anche qui, per la mania di vincere, per la medaglietta. «Guarda - terminò uno di loro - ormai lo sport esiste soltanto al di fuori dalle competizioni ufficiali».
Ciò è tanto vero, da spingermi a una considerazione che, per il conformismo contemporaneo, apparirà futuribile e insieme paradossale. Lo sport ufficiale, soprattutto quello professionistico, va abolito. Così come una parte di umanità ha capito che ci si trova davanti a un mutamento epocale, alla scelta tra il disinquinamento o la rovina del pianeta, così anche lo sport professionistico deve essere abbandonato. Le Olimpiadi vanno soppresse, così come tutto il sistema di base che porta allo loro realizzazione. Lo sport, per rimanere tale, deve ritornare dilettantistico. Tutto. Se qualcuno leggerà queste righe, tra cent´anni, mi darà perfettamente ragione. Oppure, come temo, di leggere non sarà più in grado.
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